Lubo (Franz Rogowski) è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato dall’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di prendere i loro tre figli piccoli, strappati alla famiglia in quanto Jenisch, come da programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace sino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui.
Il romanzo Il Seminatore di Mario Cavatore, da cui prende liberamente riferimento il progetto di questo film, inizia con l’incipit “gli zingari sono sempre stati un problema”: lo scontro etnico, la paura del diverso, sono ancora oggi al centro di episodi della cronaca di tutti giorni ed è evidente quanto le differenze razziali o religiose costituiscano elemento di scontro e rappresentino la più forte minaccia alla stabilità delle relazioni tra le persone e i popoli.
Ecco allora che il film di Giorgio Diritti svela una vicenda storica poco conosciuta di persecuzione nei confronti di una minoranza nomade a cui vennero sottratti i figli al fine di “rieducarli” in un periodo storico compreso tra gli anni ’30 e gli anni ’70: un episodio inquietante e particolarmente stridente per un paese democratico e civile come la Svizzera, di sovente citata come “esempio virtuoso” nel rapporto tra cittadini e istituzioni.
Lubo, a cui strappano i figli e uccidono la moglie, è un uomo solo che improvvisamente si trova in guerra con il mondo, che non accetta e lotta contro questa folle discriminazione, provando a ritrovare i suoi bambini e cercando nel volto delle varie donne che incontra il volto di sua moglie, al fine di ricostruire un futuro possibile attraverso il suo desiderio di amare. Il suo percorso, che si snoda tra i vari Cantoni della Svizzera e dell’Italia del Nord, si dipana in un tempo storico di vent’anni in cui si evolvono episodi carichi di forte drammaticità, passione e coraggio.
La prima parte del film, quella in cui il protagonista viene prima fatto arruolare nell’esercito e a cui segue la sanguinosa diserzione, è serrata e decisamente convincente, salvo poi andarsi a spegnersi lentamente nella seconda e nella terza, all’interno delle quali rispettivamente Lubo si mette alla ricerca dei propri figli, districandosi tra innumerevoli flirt sentimental-sessuali, e trova un porto sicuro nella donna che identifica come il vero (secondo) amore della propria vita (Margherita, interpretata da Valentina Billé).
Rimane certamente tutta la forza del cinema di Diritti, che racconta un’altra storia di sopruso come già avvenuto con L’uomo che verrà nel 2009, e che riporta alla nostra attenzione un tema certamente meritevole di attenzione; peccato che il ritmo latiti, e con esso il coinvolgimento emotivo dello spettatore, che nelle tre (diluitissime) ore di durata faticherà a rintracciare il rapporto con i luoghi e la terra tipici del paradigma dirittiano e che allo stesso tempo non troverà una connessione con una dimensione autoriale inedita per Diritti, più classica, matura, dalla quale francamente il regista ci sembra essere ancora molto distante.