Snodo: un progetto artistico ed una riflessione sul rapporto tra centro e periferia.
Esiste una dialettica, ben studiata e sempre in divenire, tra centro e periferia. O, meglio, tra centri e periferie. Attraverso la nebbia degli anni, come una mia personale Avalon, riemergono le letture risalenti agli studi universitari: primo fra tutti, l’intervento di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg nella Storia dell’arte italiana Einaudi intitolato proprio Centro e Periferia, datato 1979, che metteva in campo il problema della “dominazione simbolica” di un centro irradiatore di cultura e innovazioni verso una periferia marginale e marginalizzata. Ma, rispetto al secolo scorso, le cose sono cambiate repentinamente. Dal Secolo breve si è passati al “Secolo Ultraveloce” come la fibra che porta nelle nostre case il mondo filtrato dalla rete, in cui centro e periferia sono indefinibili.

E, anche geograficamente e socialmente, i concetti di centro e periferia sono sempre più relativi. Per citare una recente “chiacchierata” con il fotografo, sociologo e artista Aniello Barone: “con l’allargamento delle città, che poi diventano metropoli, questa separazione (tra centro e periferia n.d.r.) diventa sempre più difficile da capire. Praticamente dappertutto, il centro ingloba sempre più quello che prima era considerato periferia”. Ha quindi senso parlare di periferia? E di provincia? La produzione artistica risente ancora della dialettica centro/periferia? Un significativo spunto di riflessione viene dal progetto Snodo.
Memento Augé: una non-mostra in un non-luogo
Nella periferia di Saviano, in provincia di Napoli, si è svolto (dal 14 al 28 settembre 2020) il progetto artistico intitolato Snodo che ha riunito quattordici artisti internazionali (Cesare Accetta, Aniello Barone, Giuseppe Caccavale, Timothée Chalazonotis, Flaviana Frascogna, Salvatore Manzi, Olivier Menanteau, Pino Musi, Coutarel Odilon, Pier Paolo Patti, Felix Policastro, Antonello Scotti, Ciro Vitale e Nicola Zucaro) con la curatela della storica dell’arte Valentina Apicerni, che ha al suo attivo progetti di ricerca relativi alla digital e alter economy per il sistema culturale, collaborazioni con dOCUMENTA, il Centre Pompidou, Dak’Art la Biennale de l’Art Africain Contemporain di Dakar e, last but not least, il MANN – Museo Archeologico Nazionale, Napoli.

Il progetto ha avuto luogo nello svincolo stradale all’ingresso di Saviano, dove ogni settimana si svolge il mercato comunale, ed ha usato quattordici cartelloni che solitamente sono in affitto per le pubblicità commerciali o le affissioni politiche.

Gli artisti hanno proposto un’opera per ciascun cartellone, entrando in relazione con un luogo insolito per una mostra: un’area pensata non per la contemplazione, ma per il transito (specialmente in automobile, quindi con una certa velocità), situata in un piccolo centro di provincia, ma che – essendo periferica – condivide con le metropoli la stessa tipologia di tessuto urbano. Un luogo “di confine” e difficile per chi lavora con le arti visive, ovvero, sempre per dirla con Barone: “Paesaggi spigolosi, irrequieti, difficili da addomesticare. Chi lavora in questi luoghi non vuole “addomesticare la visione”, anzi in qualche modo se ne vuole liberare”.
Snodo e Sabato Angiero Arte
È possibile definire Snodo una mostra? Sicuramente non nel senso tradizionale del termine. È un progetto di “arte pubblica”, ma in cui la dimensione istituzionale non ha posto. È un invito alla visione, alla pausa visiva, forse, ma di certo è lontano dalla visione tradizionale del sistema dell’arte, con i suoi canoni e le sue regole. Così come ne è lontano il deus ex machina del progetto: l’artista “non-gallerista” Sabato Angiero.

Snodo è un progetto molto peculiare. Come ha reagito il pubblico? Ci sono state reazioni che ti hanno colpito o che non ti aspettavi?
Come sai, il luogo scelto è l’area mercatale di Saviano, dove i quattordici cartelloni pubblicitari fanno parte da sempre all’arredo urbano e fungono anche da tiranti alle corde per tenere tesi i teloni delle bancarelle. Non abbiamo avuto reazioni eclatanti: i commercianti del mercato hanno continuato ad agganciarci le corde, i cittadini si sono mostrati curiosi e qualcuno si è avvicinato per chiedere informazioni, che è già tanto nel nostro frenetico vivere quotidiano. La reazione più peculiare l’ha avuta un’agenzia di stampa, che prima di procedere ha voluto sapere se la foto era giusta così come l’avevamo mandata, visto che non c’era nessuna parola o slogan che pubblicizzasse qualche prodotto. Ho spiegato che lo scopo dell’immagine non era vendere un prodotto. L’immagine era messa lì col solo scopo di produrre bellezza.

So che non ti definisci “gallerista”, come mai? Cosa dovrebbe essere un gallerista e perché non ti senti di esserlo?
Una galleria richiede tanti sacrifici e comporta molti costi, che devono essere coperti vendendo le opere. Semplicemente non mi ritrovo in questa dimensione: non mi ritengo un gallerista perché non il mio scopo non è vendere l’arte, ma appagare il suo bisogno di ricerca, nuove visioni e progetti. Secondo me, un artista deve essere stimolato in queste direzioni, non a a produrre un prodotto da vendere. Nelle mostre, per me, l’arte è al centro della discussione e rigetto la visone dell’arte come mera operazione commerciale.
La mia soluzione è essere economicamente autonomo e avere la possibilità di dedicarmi all’arte in maniera indipendente: faccio il ferroviere da più di trent’anni ed è il lavoro che mi ha permesso di avere una stabilità economica e di non essere assillato dal mercato e dal bisogno di vendere a tutti i costi per sopravvivere.

Ho cominciato ad esporre le opere degli altri con il nome di SAACI/GALLERY (Sabato Angiero Arte Contemporanea Italia/Gallery), che era nato con riferimento ironico alla SAATCHI GALLERY di Londra, proprio perché non mi sono mai sentito un vero gallerista. Poi il mio progetto si è evoluto ed ho deciso di abbandonare il “superfluo”, cioè il riferimento all’arte contemporanea ed all’Italia: credo che l’arte non sia legata ad luogo specifico né tantomeno ad una dimensione temporale. Ora il mio progetto si chiama Sabato Angiero Arte, ma ti posso assicurare che la direzione ed i bisogni sono sempre gli stessi.
Pensi che continuerai la tua attività come artista o quel capitolo della tua vita è chiuso?
Mi sento ancora un artista: ogni mostra mi permette di conoscere un nuovo amico e fare un percorso insieme. Parto sempre dalla conoscenza reciproca e dalla stima, se arriviamo ad una mostra è perché riusciamo a costruire qualcosa insieme. Questo esula dalle classiche dinamiche artista-gallerista e credo che il risultato finale testimoni gli sforzi comuni, che come artisti, condividiamo anche con chi ci aiuta a curare i progetti, dando loro le parole, testimoni indispensabili per fare arte.