In un mondo in cui tutto è tracciato, tenuto sotto controllo, vissuto come se fosse un enorme libro aperto le cui pagine possono essere sfogliate da chiunque, è davvero possibile cancellare qualcosa per sempre?
Questo interrogativo mi ha accompagnato per tutto il viaggio di rientro da Salerno, un quesito che mi è frullato in testa da quando ho lasciato l’ex Chiesa dell’Addolorata, dove alle 19.00 del 7 ottobre, il collettivo Hvallo, guidato dalla preparatissima curatrice Emanuela Marmo, ha dato voce e vita a chi di voce, oggi, non ne ha più.
Damnatio Memoriae, questo il titolo della mostra, ha già trovato la sua liberazione prima a Berlino in due location differenti, nel giugno e nel luglio del 2022, poi a Sarno nel Marzo di quest’anno e adesso a Salerno, in esposizione fino al 15 ottobre, ed è una straordinaria dimostrazione di talento e creatività che lascia senza parole e invita alla riflessione.
Devo ammettere che per motivi di traffico ferroviario sono giunta a Salerno ben dopo le 19 e varcando la soglia della Chiesa mi sono ritrovata spettatrice, tra gli spettatori, di una performance artistica messa in scena dai giovanissimi allievi del Laboratorio di arti sceniche Duodanza che, attraverso le coreografie di Carmela Fiore e la regia di Carlo Rosselli, hanno portato alla luce gli interrogativi rimasti in sospeso a seguito degli scontri avvenuti durante il G8 di Genova. Perché non ce lo avete detto? Perché non se ne parla più? Perché nessuno ci ha informati?
Queste le parole ripetute dai ragazzi, formulate guardando dritto negli occhi lo spettatore, in un silenzio carico di emozioni, non prima di averci ricordato, attraverso brevi monologhi, alcuni dei momenti e dei soprusi che sono avvenuti durante quel tragico giorno.
Qual è dunque, il messaggio che vuole rimandarci questa mostra? Perché mai il collettivo ha scelto di riprendere un termine, Damnatio Memoriae appunto, risalente alla Roma antica con il quale si decretava la cancellazione di ogni ricordo per coloro che si erano macchiati di gravissimi reati? Da dove è nato il bisogno di questi artisti di sollevare interrogativi su temi cosi’ delicati e difficili da affrontare? Cosa c’entrano il G8 e i Briganti con questa esposizione?
Ebbene, ho deciso in qualche modo di rubare pochi minuti a ciascun artista presente all’inaugurazione per cercare di comprendere quali fossero le intenzioni del collettivo e perché mai si parlasse del brigantaggio, di storia vissuta e di memoria cancellata a distanza di cosi’ tanto tempo.
Potrei dire, senza commettere errore alcuno, che la prima ad interrogarsi sull’attendibilità delle ricostruzioni storiche è stata Giuliana Pugliese, nativa lucana, che ha traslato la sua vita e la sua arte in quel di Berlino e che, partendo dai racconti familiari dei nonni, ha conosciuto una versione della storia che non è possibile ritrovare nei libri di scuola. L’artista, che abbiamo intervistato davanti alle sue opere che ritraggono le brigantesse più note, ci racconta che la sua ricerca le ha fatto scoprire come anche donne giovanissime si armassero per combattere al fianco degli uomini, ponendo probabilmente le basi per quello che ad oggi conosciamo come femminismo. Mi sottolinea inoltre che, durante le sue ricerche, ha scoperto che le stesse donne che si armavano di fucili per andare nei boschi a combattere, venivano in realtà definite Drude, ovvero venivano considerate prostitute del brigante. In realtà si trattava di donne disposte a rischiare la vita per i propri ideali, per difendere la propria terra, la propria famiglia e, tra le altre cose, pone l’accento sulla storia di una Brigantessa che pare si fosse addirittura costituita e fatta arrestare come capo della banda, permettendo di fatto agli altri Briganti di darsi alla fuga. In fase di processo poi, la donna non ha mai vacillato, né ha mai rivelato i nomi dei compagni e ciò sottolinea la forza d’animo che ha accompagnato la lotta femminile in tutto il periodo della rivolta. Oltre ai due dipinti, al centro sulla navata, c’è un’opera realizzata con sabbia nera, che l’artista rivela essere per lei il simbolo della negazione e della cancellazione della storia. A seguito delle sue ricerche e dopo la presa di coscienza della Pugliese sul reale svolgimento dei fatti, la sabbia nera ha lasciato il posto ai volti delle brigantesse che troviamo sugli altri due dipinti.
C’è da dire che ogni opera realizzata per questa mostra è ugualmente stimolante e coinvolgente, restare indifferenti davanti a questa varietà di espressioni artistiche, che si tuffano nelle profondità dell’animo umano, è praticamente impossibile. Nonostante l’oscurità e la profondità delle tematiche affrontate, l’esposizione crea un equilibrio tra la bellezza estetica e profondità concettuale.
È così che gli occhi si perdono tra le diverse espressioni artistiche e si soffermano sull’opera di Veronica Rastelli, dal titolo Carne da macello, un’opera ricca di simbolismo, iniziando dal titolo stesso come sottolinea la Rastelli. Di fatto l’opera si presenta con una serie di fili che pendono dal soffitto e terminano con dei ganci simili a quelli utilizzati dai macellai nelle celle frigorifere, per appenderci le carni. A questi ganci sono uncinati trentatré parti di volti femminili, realizzate su fazzoletti, quegli stessi fazzoletti che le donne utilizzavano per comunicare coi briganti durante gli spostamenti. I volti sono volutamente dipinti a meta’ perché in quel tempo era necessario non farsi scoprire e dunque le brigantesse erano costrette a nascondersi nei boschi per non essere trovate dai piemontesi. Il fondale dietro è realizzato su un lenzuolo antico di corredo matrimoniale che l’artista ha stampato con tutte le foglie della macchia mediterranea ad indicare ancora una volta l’appartenenza a quella terra per la quale erano disposte anche a morire. Su questo lenzuolo la Rastelli ha anche ricamato a mano le sagome dei fucili che venivano utilizzati durante le battaglie. Al centro dell’opera ritroviamo una camicia bianca da cui pende un filo rosso, che parte dal cuore e simboleggia il sangue che i rivoltosi hanno sparso durante le battaglie. Un’opera intensa, vibrante, che ci riporta alla familiarità dei luoghi e delle terre per la cui difesa i contadini sono stati costretti a diventare briganti.
Ed è proprio dai luoghi che parte la ricerca di Giordano Quaresima che fa una vera e propria indagine fotografica sui posti che i briganti hanno attraversato durante quei lunghi anni di battaglie. Nelle sue fotografie non c’è un semplice paesaggio scoperto e ritratto, ma ogni scatto è intriso di poetica narrazione, come se fosse possibile riconoscere gli odori intorno o sentire il fruscio leggero del vento. Nel suo bisogno di comprendere cosa fosse accaduto realmente in quei tempi, Quaresima si spinge fin nelle Marche dove scorge una statua dell’esercito piemontese che scende a sud, una statua fatta di bronzo che spicca e si scontra in modo quasi grottesco, con il paesaggio su cui si staglia una imponente montagna bianca fatta di granito e cemento. Lo scatto mette in risalto questa profonda disparita’ quasi a voler sottolineare, con il suo chiaroscuro, la potenza della natura sull’uomo e sulla sua avidità. Tramite documentazioni ottenute dalla stessa Giuliana Pugliese, il fotografo è riuscito anche a scoprire diversi aneddoti sulle bande dei briganti di cui ci ha fatto piccoli accenni durante la nostra chiacchierata e tra le altre cose ha trovato una grotta scavata con un martello particolare che ha lasciato sulla superficie dei piccoli quadrati che sembrano creati appositamente per dare maggiore risalto al muro. Sul muro della grotta si può notare un dettaglio che l’occhio fotografico di Giordano Quaresima non poteva perdere, ovvero una figura stagliata in alto molto somigliante ad un angelo. In questa esposizione mancherebbero, a detta dell’artista stesso, alcuni luoghi che ancora desidera esplorare e fotografare, rigorosamente in solitaria in quanto, quando scatta, ha bisogno di tessere un dialogo tra lui e il soggetto fotografato senza interferenze di altra natura.
Damnatio Memoriae è una mostra di arti figurative nella quale ogni artista ha indagato sul tema attraverso il proprio linguaggio ed è per questo che ritroviamo fotografie, sculture, pittura e installazioni. Non si tratta di una esposizione passiva, tutt’altro! Oltre alla performance di cui abbiamo già fatto menzione prima e che sarà replicata domenica 15 ottobre alle 18, in occasione del finissage della mostra, i visitatori hanno potuto simbolicamente prendere parte alla Battaglia di Orgreave grazie all’opera sonora di Jan_Peter Sonntag. La denuncia dell’artista ci rimanda in uno degli scontri più violenti della storia industriale britannica, dove la falsa narrativa, messa in piedi dalla polizia, ha fatto si’ che 71 manifestanti venissero accusati di sommossa, reato a quel tempo punibile con l’ergastolo.
A questo punto vi starete probabilmente chiedendo che cosa c’entra tutto questo con i briganti. Ebbene, c’è da precisare che il collettivo parte dai briganti ma ha come intento quello di porre l’attenzione sulle false narrazioni, sulle verità nascoste e cancellate, sulle ricostruzioni distorte di chi si trova al potere. Tutto questo lo ritroviamo palesemente dichiarato nelle opere di Antonio Conte, che si è interrogato su chi potesse essere oggi un brigante, perché il rapporto con la storia per lui ha un valore secondario, ciò che lo interessa invece è il mondo attuale e l’epoca che stiamo attraversando. Pertanto è partito da un interrogativo di base, ovvero chi sono i Briganti? Ed è arrivato alla conclusione, forse un po’ romantica per sua stessa ammissione, che si tratti di persone che, per perseguire i propri ideali, vanno contro le regole comuni, scardinando quelle imposte dalla società con l’intento di crearne una migliore o, semplicemente, una che ai loro occhi sembri migliore. Da qui l’idea che i briganti di oggi sono gli operai della fabbrica di Firenze, o la giovanissima attivista Greta Thunberg, il popolo di Seattle del 2001 e se avesse avuto il tempo necessario avrebbe ritratto anche i manifestanti del G8, per lo stesso senso di perdizione che hanno avuto i ragazzi del Laboratorio Duodanza, dinnanzi a verità taciute e negate.
L’essere brigante nella società di oggi equivale per il Conte a fare una scelta ed è per lui un tema importantissimo e anche molto sentito. L’artista decide quindi di lavorare sui ritratti ma non secondo i canoni noti, in quanto non si tratta del mero ritratto di un soggetto piuttosto è il frutto della somma di più ritratti nata dal collage che lui stesso ha fatto, riprendendo parti di volti da persone diverse, perché ognuno di noi possa riconoscersi e ritrovarsi nelle sue opere. Tutti dunque possiamo essere briganti, tutti possiamo avere un ruolo nella storia attivo o passivo, tutti facciamo ogni giorno delle scelte, nel bene o nel male. La verità è quasi sempre impossibile da scoprire e non è mai solo tutto bianco o tutto nero. Tra i lavori esposti, ritroviamo due opere che riportano il volto degli ebrei morti nelle prigioni di Kopenick, giustiziati per aver dato voce al proprio credo e, dietro ad ognuna di queste due opere, l’artista ha poi scritto i nomi di tutti coloro che hanno perso la vita tra le mura di quelle prigioni.
Damnatio Memoriae più che una mostra è un viaggio emozionante e coinvolgente nel mondo dell’arte contemporanea, un viaggio che ci porta dritti alla chiacchierata con Gerardo Rosato, artista che ha la straordinaria capacità di modificare a suo piacimento il filo di ferro e creare cosi’ delle sculture incredibili, un mondo che nasce grazie alla sua matita invisibile, custodita nel profondo della sua anima e della sua mente e con la quale riesce a dar vita a storie sempre diverse grazie alle ombre che le sue opere riflettono sui muri. Varcando la porta che separa la piccola cappelletta dal resto della Chiesa ampiamente illuminata, ci si ritrova al buio e faccia a faccia (è proprio il caso di dirlo) con i ritratti creati dall’artista che, illuminati solo da un raggio di luce, prendono vita e mutano ad ogni piccolo spostamento. Si tratta di un’installazione interattiva le cui sculture in ferro sono state assemblate con materiali di scarto della fonderia dove l’artista lavora, ovvero con materiali poveri che l’artista ricicla in quanto portatori gia’ di una precedente storia.
Dopo essermi chiusa letteralmente nella cappellina al buio e aver provato a creare con le proiezioni di luce, una storia tutta mia, sono tornata nell’immensa vastita’ della chiesa e mi sono imbattuta nell’installazione del duo MadVision, che si sofferma sul contributo della massa e del popolo nelle dinamiche sociali. La loro opera propone una serie di omini sospesi nel vuoto e attaccati ad un filo che parte dalla loro testa e finisce non si sa bene dove, ideologicamente parlando. Trauma, uno dei due artisti facenti parte del duo MadVision, ci sottolinea come ogni idea che partorisce insieme a Tex, si riveli essere sempre un’opera seriale, non nel senso stretto del termine e dunque come riproduzione in serie dello stesso soggetto, quanto piuttosto nel senso ampio di concatenazione di creazione. Da ogni opera realizzata ne nasce sempre un’altra e poi un’altra e un’altra ancora quasi come se ognuna fosse figlia di quella precedente. Oltre a questa installazione, Trauma ha realizzato un’opera site specific creando una croce gialla che si staglia su un fondale nero e che è stata installata proprio sull’altare. Ha utilizzato un simbolo religioso, riproponendolo in chiave MadVision, non allo scopo di sfociare nella blasfemia ma per sottolineare quanto, nella storia delle religioni in particolare e in tutte le storie in generale, manchi una componente essenziale, quella umana.
La cura con cui le opere sono state posizionate e la scelta della disposizione dei colori e della luce, conferisce all’esposizione una sensazione di armonia di flusso che è frutto dell’esperienza e della bravura della curatrice della mostra Emanuela Marmo con la quale mi sono ritrovata in una lunga chiacchierata che avrò il piacere di riportarvi nel nostro prossimo articolo. Qui posso solo anticiparvi che con lei ho scoperto le opere degli artisti che non hanno potuto raggiungere Salerno per il vernissage e ho sentito dalla sua voce quanto i briganti siano una storia difficile da raccontare per quella volontà, naturalmente insita nei poteri forti, di condannare all’oblio cio’ che è troppo scomodo e difficile da affrontare. La Marmo ci ha raccontato anche del clima che si respira nel collettivo, di come è nato e di quanti artisti hanno aderito a questo progetto e della volontà del collettivo stesso di aprirsi in nuove collaborazione.
Damnatio Memoriae dunque, non è semplicemente una mostra ma è un’esperienza che lascia il segno e che è impossibile cancellare dalla memoria. È un’occasione da non perdere per tornare a fare i conti con un passato che non è mai passato, che ci appartiene ancora oggi, un passato che purtroppo ritroviamo ancora nella vita di tutti i giorni e che non possiamo più permetterci di ignorare semplicemente girando la testa dall’altra parte.